Povertà, incertezza, zero igiene. L’inferno è in terra e si chiama Tor Cervara

Per chi non vive in una casa degna di questo nome andare avanti è una continua scommessa con il caso. Scampare alla morte, quando non si ha un lavoro e si trascorrono le proprie giornate all’interno di un rudere, dipende dal mix di coincidenze ed eventi fortuiti con cui ci si trova, quotidianamente, a fare i conti. 
Sopravvivere, in un certo senso, è una questione di fortuna, per quanto, quando si racconta il dramma di chi non riesce ad ottenere neanche un alloggio popolare, utilizzare questa parola suoni decisamente bizzarro.
 
Tor Cervara è uno di quei luoghi che fa notizia solo quando il connubio tra indigenza e fenomeni ambientali rischia di provocare una mattanza. 
L’immobile, sito in via Raffaele Costi (quartiere Tor Sapienza, Roma), è occupato da un centinaio di nuclei familiari di varie etnie (italiana, slava, africana, rom). Ad agosto scorso un incendio originatosi dalle montagne di rifiuti accumulate negli anni dagli occupanti ha fatto accendere bruscamente i riflettori sulla situazione, dimostrando, ancora una volta, che l’emergenza abitativa può essere una bomba a orologeria, se a innescarla contribuiscono la frustrazione e il senso di ingiustizia. 
 
Nonostante a seguito dell’incendio l’immobile fosse stato dichiarato inagibile, gli occupanti non sono andati via. “Come faccio? Il Comune non mi dà alternativa. Oltre questo, non ho nessun altro posto dove andare”. Questa frase riecheggia come un mantra sulla bocca di tutti. 
 
Come ha reagito a tutto questo l’amministrazione di Roma? Limitandosi a proporre a donne e bambini di andare in casa famiglia, mettendo, inevitabilmente, gli uomini davanti a uno scenario tremendo. Essere separati dalla propria famiglia e, magari, finire a vivere in macchina…
Inevitabile chiedersi quali ripercussioni avrà, sulla psiche e sulle scelte di vita di quelli che oggi sono bambini e adolescenti, l’esperienza a Tor Cervara.